La sua Torino è surreale, onirica. La sua fotografia colpisce per i colori accesi, per la sua scelta di raccontarci una storia.

Lui è Sauar, nato Riccardo Surace e l’ho intervistato per capire meglio i sentimenti che mi hanno toccato guardando le sue opere, la sua fotografia che è cura, movimento e bellezza.

Il tuo nome è molto interessante e particolare. Com’è nato?

Il nome d’arte Sauar deriva innanzitutto dal mio cognome: Surace. Da sempre mi chiamano Sura ma in più, a causa di un problema personale, non mi è più concesso bere alcolici… l’ultima bevuta in compagnia è stata Vodka Sour, da qui Sauar appunto: è l’assonanza tra la storpiatura del mio cognome e questo piacevole ricordo.

Come sei arrivato alla fotografia?

La fotografia è per me una cura. Ho sempre studiato Fotografia, prima al Liceo, poi in Accademia e anche dopo non ho mai smesso. Mi hanno insegnato che la fotografia tradizionale stava morendo a causa della transizione digitale, ma è proprio dal digitale, secondo me, che si può prendere, togliere, stravolgere e trarre grande ispirazione.

Cosa ti ispira?

Traggo ispirazione per le mie fotografie dal movimento in generale, dalla luce e dai colori della Terra e dalla convinzione che il concetto di bellezza non è uguale per tutti.

Qual è un istante che desidereresti ma non si può catturare con la tua macchina fotografica?

È una domanda complessa, ma ritengo che ogni mio scatto corrisponda a un preciso momento. La sfida che, in qualità di fotografo, mi pongo costantemente è di far emergere il mio punto di vista proprio in quell’attimo.

Su Artàporter sei presente con la serie “Quello che non vedi, non ordinario”. Mi piacerebbe saperne di più e anche il motivo per cui hai pensato di presentarti con queste fotografie in particolare.

Il progetto “Quello che non vedi, non ordinario” è un lavoro che nasce dal profondo e intende raccontare la mia storia, un’esperienza di vita solitaria immersa nella metropoli. Infatti, dopo cinque anni passati a combattere contro un morbo, ho voluto rappresentare quella che per me è stata la sensazione di estraneità di un ragazzo che, pur in mezzo alla gente, si è sentito a tratti invisibile, ma allo stesso tempo coinvolto nella frenesia della mia città, Torino.

Come sei arrivato ad Artàporter? Ci racconti la tua esperienza?

Sono arrivato su Artàporter grazie a un contatto che mi ha proposto il progetto. Lo ringrazio molto anche perché trovo l’iniziativa veramente interessante. Sono forse stato tra i primi a vendere un’opera tramite questa piattaforma e ritengo importante mettersi in gioco anche in contesti non prettamente artistici, quali negozi o ristoranti.

Consiglieresti Artàporter?

Consiglierei Artàporter agli artisti che, come me, vogliono ampliare la loro rete di conoscenze, di pazientare e perseverare nell’intento.

Se vuoi seguire il consiglio di Sauar candidati qui con le tue opere!

 

Valentina “Daze” Di Martino